Depeche Mode, ‘Spirits in the forest’ al cinema: la recensione

C’è un giovane padre colombiano che canta in una strampalata cover band dei Depeche Mode con i suoi figli. C’è una madre dell’Illinois che ha combattuto contro un brutto tumore. C’è una donna che ha perso la memoria dopo un incidente conservando un unico ricordo: la musica della sua band del cuore. C’è una ragazza della Mongolia che fa la guida turistica e vive in un appartamento di Ulan Bator con sua nonna. C’è un fotografo rumeno che negli anni della dittatura di Ceaușescu cercava di procurarsi i dischi delle band che spopolavano in Occidente. C’è un giovane dell’alta società brasiliana che è fuggito a Berlino alla ricerca della sua strada. Una cosa li accomuna: i Depeche Mode hanno segnato indelebilmente le loro vite.
Questo racconta "Spirits in the forest", il film-concerto diretto da Anton Corbijn e distribuito da Nexo, al cinema solo il 21 e 22 novembre - qui l'elenco delle sale -, che alterna le storie di quelli che vengono presentati come “sei fan speciali” della band di Dave Gahan alle riprese dei concerti dei Depeche Mode al "Forest Stage" di Berlino, “la capitale dei Depeche Mode”, del “Global Spirits Tour” del 2017-2018, ai quali sono presenti anche i sei fan nelle cui vite il regista che da anni segue la formazione britannica si addentra. Scivolando attraverso la scaletta messa in scena dalla band nella città tedesca, i classici targati Depeche Mode si arricchiscono del significato che essi hanno avuto e hanno per chi li ama, presentando allo spettatore i brani sotto una nuova luce. E così “Personal Jesus” non è più solo “Personal Jesus” ma è la canzone che fa sentire una ragazzina che vede suo padre due volte all’anno e che suona il basso nel pieno controllo, con il suo strumento, della situazione; “Precious” è il brano che porta alle lacrime chi soffre della lontananza dei propri cari; “Enjoy the Silence” è la canzone che, con il suo video, ha spinto uno dei fan a riprodurre, fotografandolo, l’immaginario del re, con corona e mantello, immerso nel silenzio delle montagne; “Just Can’t Get Enough” è una parentesi di leggerezza da cantare saltando sul letto. Ed è bello, tra tanti live movie, che questo non parli solo dei creatori della musica ma anche, e con dovizia di dettagli, dei suoi fruitori, senza i quali – come spesso ricordano anche gli artisti stessi - non ci sarebbero né i Depeche Mode né tante altre band, nutrite dal riscontro, dal sostegno, dal calore e, non da ultimo, dal denaro investito in album, dischi, biglietti e merchandising, del proprio seguito.
Inutile dire che la regia e la fotografia di "Spirits in the forest" non lasciano delusi. Del resto l’olandese Anton Corbijn, oltre a conoscere molto bene la formazione capitanata da Dave Gahan, ha immortalato dietro alla macchina fotografica o alla cinepresa decine di artisti, su tutti gli U2, ma anche i Joy Division, Bob Dylan, Bruce Springsteen, Tom Waits e molti altri. L’intensità del frontman della band e la grazia che riescono a incarnare le sue movenze sgraziate, la sintonia tra Gahan e la colonna portante della band Martin Gore, l’energia di Andy Fletcher e dei turnisti Christian Eigner e Peter Gordeno, tutto questo viene documentato dallo sguardo di Corbijn, che passa dalle gocce di sudore di Gahn all’immensa platea davanti ai Depeche Mode di quel luglio 2018. Cercando di dar voce a quel magico connubio tra band e pubblico che, quali che siano i gruppi che ci fanno battere il cuore, tiene in piedi l’incredibile impalcatura dietro alla musica e alle sue infinite forme.
di Erica Manniello